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Uno stato dell’essere

La meditazione passa attraverso diverse tecniche, e gradualmente diventa una condizione che ci accompagna nella vita di tutti i giorni. È a questo punto che essa serve davvero, quando si instaura un livello di consapevolezza che insegna a essere testimoni di ciò che ci accade

A cura di Miten Veniero Galvagni*
Uno stato dell’essere

Come ha detto in modo lapidario Siddhartha Gotama, il Buddha storico, Buddha Shakyamuni, noi esseri umani siamo costantemente lacerati tra ciò che abbiamo e che non vorremmo avere, e ciò che non abbiamo, o che rischiamo di perdere, e che vorremmo avere o vorremmo trattenere. Siamo  presi dall’angoscia di perdere o di non poter ricevere quello che riteniamo “buono”, e siamo terrorizzati al solo pensiero che ci arrivi addosso quello che riteniamo “cattivo”.
Questa metafora va considerata come sfondo per quanto esporrò di seguito. La pratica meditativa trova, infatti, una sua ragione solo nel momento in cui riusciamo a comprendere il motivo per cui è importante. 
Se non fossimo convinti dell’importanza della meditazione, chi ce lo farebbe fare di starcene seduti magari per delle ore su un cuscino, mantenendo la schiena dritta e avendo magari anche un’ernia del disco? Che cosa ci spingerebbe a fare le meditazioni dinamiche ideate da Osho, che prevedono un notevole sforzo fisico? 
Perché dovremmo praticare meditazioni come lo Zazen, che possono anche mandare fuori di testa da quanto, con la loro semplicità, ci mettono praticamente di fronte al nostro vuoto interiore e ai nostri affannosi tentativi di riempirlo con ogni sorta di pensieri, emozioni e comportamenti? Che cosa ci può spingere a meditare se non la profonda convinzione che, così come la stiamo conducendo, la nostra vita è assolutamente pazzesca? 
Noi viviamo continuamente attanagliati da due forme di malattia: la repulsione e l’attaccamento, che potremmo anche chiamare avversione e desiderio. Ognuno di noi prova dei desideri, che a volte diventano bramosie; una volta soddisfatte, le bramosie danno luogo agli attaccamenti; ed è evidente come questi ultimi provochino sofferenza.
Pensiamo, per esempio, all’amore che proviamo nei confronti dei nostri figli o del nostro partner.
Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che il fatto stesso di essere molto legati ad essi, non ci procura sofferenza solo finché restano attaccati a noi. Se infatti per qualche motivo essi ci lasciassero o morissero, noi soffriremmo per la perdita di quelle persone che amiamo. 
Ma per quanto tempo, solitamente, gli umani restano aggrappati a questo dolore? Generalmente anni e anni, forse anche per tutta la durata della vita. I meditanti molto “avanzati”, e non solo in Oriente, poche ore, forse qualche giorno, spesso solo cinque minuti.
Ed è per questo che Buddha suggerisce di prepararci in tempo, lavorando molto sul nostro atteggiamento, sulla nostra attitudine interiore all’attaccamento, rendendoci consapevoli di ciò che ci spinge ad attaccarci a qualcosa di esterno, a qualcosa che non è certo sovrapponibile al nostro essere più profondo, ma che serve soltanto a coprire provvisoriamente i nostri buchi interiori. 
Si può lavorare in questo senso praticando la meditazione, soprattutto le meditazioni di consapevolezza, che sono state riprese in vari modi da tutti i maestri dell’Oriente e dell’Occidente. La tecnica base è la meditazione Vipassana, che porta alla visione profonda dei contenuti della nostra coscienza, del nostro corpo, delle nostre emozioni. Osho, il mio principale Maestro, l’ha definita la “meditazione regia”, quella che ci può condurre più velocemente di ogni altra alla conoscenza di chi siamo. 

L’ACCETTAZIONE DEI NOSTRI BUCHI
L’attitudine mentale a guardarci dentro è assolutamente necessaria, perché altrimenti non riusciremo mai a scoprire il motivo per cui abbiamo la tendenza ad attaccarci a qualcuno o a qualcosa al di fuori di noi. Soltanto se impareremo a guardarci dentro potremo capire che il partner, i figli, il lavoro sicuro, la bella casa, e tutte le cose di questo genere, servono esclusivamente a coprire i buchi che sentiamo dentro di noi. Ci illudiamo che un nostro buco interiore possa riempirsi dall’esterno, procurandoci così quella sensazione di appagamento che cerchiamo. Ma sappiamo bene che non è così. 
Dopo aver ottenuto ciò che desideravamo tanto, sentiamo infatti aprirsi un nuovo buco vicino a quello di prima, per cui ci rimettiamo alla ricerca di un nuovo oggetto esterno per riempirlo. Come possiamo scoprire questo meccanismo, se non praticando la meditazione? Certo, possiamo scoprirlo anche rivolgendoci a un bravo psicoterapeuta. Ma la psicoterapia funziona al meglio se è accompagnata dalla meditazione. 
Gli stessi risultati di una pratica meditativa potrebbero essere ottenuti da una psicoterapia condotta da uno psicoterapeuta che abbia praticato molto a lungo la meditazione, e che consigli al paziente di praticarla. A mio parere, queste due tecniche insieme costituiscono in moltissimi casi una combinata vincente. 
Praticando la meditazione, soprattutto la meditazione di consapevolezza, noi attiviamo un processo che, negli ambienti con una componente esoterica, viene chiamato “alchimia interiore”. Si tratta di una trasformazione interiore che consiste fondamentalmente in questo: nel momento stesso in cui io divento consapevole di avere un buco, mi rendo conto che la consapevolezza del mio buco è “incinta” di una nuova creatura, che è l’accettazione di quel buco (questa è una bellissima espressione di Corrado Pensa 1). Questa alchimia, che per qualcuno può risultare molto misteriosa, non avviene attraverso la psicoterapia, ma soltanto attraverso la meditazione. 
Coloro che hanno una discreta pratica, che hanno provato almeno qualche volta a praticare una meditazione di consapevolezza, sanno benissimo di che cosa sto parlando. La meditazione vera di consapevolezza, si esprime peraltro soprattutto nel quotidiano. 

LE MEDITAZIONI DI CONSAPEVOLEZZA
È da questo tipo di meditazione che dovremmo partire. Dal mio punto di vista, non ha infatti molto senso praticare meditazioni dinamiche, che mettono in movimento i centri di energia per la pulizia dei chakra e dei corpi sottili, se parallelamente non si praticano anche meditazioni di consapevolezza.
La principale meditazione di consapevolezza è la Vipassana (che significa “visione profonda”), la tecnica di meditazione che Buddha stesso ha insegnato. In che cosa consiste questa meditazione? Consiste semplicemente nel portare l’attenzione sul respiro: ci si siede in una certa posizione, e si porta l’attenzione sul respiro. A un livello più avanzato, quando si è in grado di seguire il respiro senza distrarsi, si può passare in rassegna tutto il corpo: si porta l’attenzione su piedi, gambe,  polpacci, ginocchia, cosce, sedere, pancia, tronco, braccia, collo, e poi si sale fino alla sommità del capo.
C’è poi un terzo livello, in cui si esaminano le emozioni; è questo il punto più interessante, perché si diventa testimoni delle proprie emozioni. Quando si passa in rassegna il corpo, è facile incontrare delle zone dolenti. L’indicazione che viene data dai maestri è quella di limitarsi ad essere consapevoli del proprio dolore. L’insegnamento fondamentale è infatti questo: tu non sei il tuo dolore. Se sei in grado di osservarlo è evidente che sei un’altra cosa da esso, e quindi non c’è motivo per cui ti debba disperare.
Quando passiamo al livello delle emozioni, diventiamo spettatori delle nostre emozioni. Immaginiamo per esempio di trovarci in uno stato di angoscia: mentre sentiamo un buco nello stomaco, avvertiamo l’angoscia che sale dentro di noi. Diventando spettatori, impariamo un po’ alla volta a riconoscere che, contrariamente a quanto siamo portati a pensare, noi non siamo l’angoscia, ma siamo “qualcosa” che è testimone dello stato di angoscia che sta invadendo il nostro corpo.
È possibile osservare la rabbia, la paura, o qualunque altra emozione sgradevole, ma è possibile osservare anche la gioia, la serenità, la contentezza. Se ci capita di praticare questa meditazione quando stiamo bene, osserviamo la nostra serenità. Anche in questo caso però ci viene raccomandato di non identificarci con la gioia.
Uno dei pilastri fondanti della dottrina del Buddha consiste nell’invito a disidentificarci non solo rispetto al dolore, ma anche rispetto alla gioia. Con questo insegnamento, Buddha non intendeva certo indurci a non vivere totalmente ciò che proviamo; egli voleva semplicemente invitarci a vivere ciò che proviamo nel qui e nell’ora senza attaccamento e senza repulsione, quindi senza identificazione. La non identificazione può apparire come una contraddizione rispetto a quanto dicono tutti i maestri di meditazione: “Vivi totalmente ciò che stai vivendo. Sii totale in ciò che stai facendo. Vai dentro fino in fondo nelle tue esperienze”. 
Ma che cosa intendono i maestri con queste frasi? Essi non vogliono certo dire che ti devi identificare totalmente con la situazione che stai vivendo; è il tuo testimone che deve andare dentro fino in fondo.
Il concetto del vivere appassionato che viene interpretato dalla cosiddetta “persona nella media”, è molto diverso dal concetto dell’essere totalmente nel qui e ora proposto dai maestri spirituali, che intendono questo: “é bene che quella parte di te che è testimone di ciò che vivi e che fai si immerga totalmente nelle tue emozioni, mantenendo comunque sempre la consapevolezza di essere un testimone”. 
Ovviamente, per riuscire a fare questo è necessario costruire dentro di noi l’attitudine a essere testimoni. 

LE MEDITAZIONI DINAMICHE
L’altra grande famiglia di meditazioni è costituita dalle meditazioni cosiddette dinamiche. Il più famoso Maestro inventore di meditazioni dinamiche è Osho, che ha ideato delle tecniche fondate sul principio, sistematizzato da Patanjali rispetto allo yoga, che significa “unione”, oltre duemila anni fa, in base al quale, attraverso l’attivazione del corpo a un certo livello energetico, i corpi sottili che sono oltre a quello fisico, ma che anche lo attraversano, vengono ripuliti.Viene effettuata in questo modo una pulizia dei chakra, che sono i centri energetici di una fisiologia occulta, cioè non visibile all’occhio umano normale, che fa riferimento a un’antica tradizione Indù, e che è stata poi ripresa anche in Occidente da tutta la fisiologia dell’esoterismo.
Chakra significa ruota che gira. I chakra sono quindi ruote di energia che girano; ognuno di essi nutre uno dei sei corpi sottili che ci sono oltre al corpo fisico. La meditazione dinamica di Osho ha, oltre a tutto ciò, lo scopo di favorire l’espressione di quella che nella tradizione occidentale viene chiamata “catarsi”.
La catarsi avviene nella seconda fase di questa meditazione, e serve a buttare fuori tutte le cose che abbiamo accumulato dentro di noi, e che non riusciamo a esprimere in altro modo. In tutte le fasi della dinamica, la maggior parte del lavoro è certamente mediata dal corpo fisico. Sin dalla prima fase, infatti, si provoca un’iperventilazione, un cambiamento del rapporto tra anidride carbonica e ossigeno; come conseguenza di tale cambiamento, si verificano delle variazioni elettrofisiologiche in tutti i distretti del nostro organismo. 
Avviene quindi un cambiamento fisiologico, la cui finalità principale è quella di lavorare sui diversi corpi sottili, partendo dal corpo fisico. Al tempo stesso, le meditazioni dinamiche si riallacciano alle scoperte della bioenergetica reichiana. Essendo un grande conoscitore della psicologia occidentale, Osho non poteva evitare di utilizzare anche qualcosa che appartenesse all’Occidente.
La meditazione Kundalini, inventata sempre da Osho, è la meditazione dello “scecheraggio”, che consiste nello scuotimento di tutto il corpo al fine di attivare i centri energetici (i chakra), permettendo così all’energia di risalire verso l’alto. Le meditazioni che lavorano sul movimento dell’energia per favorire la pulizia dei chakra e dei corpi sottili, trovano in parte le loro radici nell’antica tradizione delle asana dello Yoga. Attraverso una certa postura e un certo tipo di respirazione, le asana provocano infatti delle variazioni nello stato di coscienza, nel modo di funzionare della mente, nei modelli acquisiti di conoscenza.
Le meditazioni dinamiche sono dunque tese fondamentalmente a far circolare meglio l’energia: attraverso di esse si puliscono i vari chakra, e quindi anche i corpi sottili. 

INCOMINCIA DA TE 
Ma che cosa dicono i grandi maestri di meditazione, da Atisha fino a Osho? Dicono: “Incomincia da te”. Che cosa significa questo? Significa che, per poterti far carico della sofferenza degli altri, devi innanzitutto incominciare ad andare dentro la tua sofferenza, guardandola bene fino in fondo senza distogliere lo sguardo. Attenzione però, perché qui ci può essere il trabocchetto per colui che segue pedissequamente questa indicazione.
Qualcuno potrebbe infatti fermarsi a questo punto e dire: “Va bene, penso solo a me. Chiuso. Ho già abbastanza da fare, per questa e per altre quindici vite”. È un po’ riduttivo pensare così, perché, nonostante i nostri limiti, noi possiamo ugualmente permettere alla meditazione di traboccare nella compassione. Non ci viene chiesto da nessuno, nemmeno dal nostro diavoletto interiore, di diventare dei Buddha per incominciare ad aiutare gli altri.  L’insegnamento invece è questo: parti da te, perché se incominci immediatamente a occuparti solo degli altri, rischi di essere fatto fuori dalla loro sofferenza. Tutti sappiamo quanto occuparci della sofferenza altrui senza essere molto centrati su noi stessi, possa distruggerci; tutti sappiamo quanto essere attenti alla sofferenza degli altri ed essere amorevoli nei loro confronti, senza essere in grado di ricaricarci energeticamente, possa risultare nocivo per la nostra salute. In questo senso, sono utili
le meditazioni di cui ho parlato; si tratta di meditazioni che vanno bene per tutti. In un programma di formazione personale che prende in considerazione anche la meditazione, per qualche tempo è consigliabile provare tutte le tecniche.
Per mezzo della meditazione, noi attingiamo a quella fonte inesauribile di energia che è il nostro Sè: qualcuno lo può chiamare Dio, qualcuno verità interiore, qualcuno può definirlo come il livello dell’essere che è in contatto con il cosmo. Attraverso le pratiche meditative noi riusciamo a contattare il livello che ci nutre, che ci dà la forza. Quel livello non ci consente soltanto di digerire la nostra sofferenza guardandola bene negli occhi senza evitarla, ma ci fornisce anche gli strumenti per poter affrontare la sofferenza degli altri riuscendo a essere loro veramente utili.
Posseduti dalla nostra sofferenza, noi di solito reagiamo in un modo molto semplice: facciamo finta che non ci sia, oppure la eliminiamo. Per fare questo abbiamo diverse metodiche: prendiamo analgesici o tranquillanti, andiamo al cinema per distrarci, oppure facciamo cinquanta telefonate ogni sera perché ci sentiamo tanto soli. Evitiamo comunque di utilizzare la sofferenza come occasione profonda di conoscenza di noi stessi, mentre questo è uno dei più importanti insegnamenti, che proviene dalla tradizione buddhista e da tutti i grandi maestri di meditazione. Questa è la chiave del Tantrismo: utilizza qualsiasi esperienza, perché ogni esperienza è energia per poter vedere meglio dentro di te. Se noi comprendiamo che quella della sofferenza è un’esperienza che ci consente di conoscere meglio noi stessi, se riconosciamo che la sofferenza non ci invade interamente, perché c’è una parte di noi che la può osservare, certamente non la butteremo più via come facevamo prima. 
Pur rimanendo tale, la sofferenza può essere utilizzata come un’occasione, come uno stimolo affinché dentro di noi si crei il testimone, si crei quell’attitudine all’essere testimoni di cui parlavo prima. Solo quando si è creata in noi questa componente possiamo dire: “Adesso ho capito qual è il gioco”. Il gioco consiste nel non identificarsi, ma nell’essere testimoni. 

GLI EFFETTI DELLA MEDITAZIONE
È necessario adottare un criterio di valutazione rispetto agli effetti che produce in noi la pratica meditativa, perché altrimenti rischiamo di perdere tutta la vita a praticare delle tecniche di meditazione senza capire mai se siamo arrivati da qualche parte oppure no. Quello che suggerisco è di valutare tutto quello che stiamo facendo (comprese le tecniche di meditazione) sulla base del risultato che danno per quanto riguarda la presenza amorevole accanto agli altri, che poi è una traduzione pratica, concreta, della parola compassione. 
Chiediamoci dove vanno a parare tutte le tecniche di meditazione che facciamo, tutte queste belle cose, tutti gli esercizi, le posizioni, le respirazioni, tutti gli atti di consapevolezza. Stanno creando dentro di noi una disponibilità maggiore, un’apertura, un’amorevolezza? Ci stanno facendo sentire che tutti gli esseri, compresi gli animali e le piante, vanno rispettati e amati come gli esseri umani di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutti i sessi? 
Oppure, nonostante le pratiche meditative, ci sentiamo rigidi, pronunciamo dei giudizi, scindiamo ancora gli uomini dalle donne e, per di più, generalizzando eccessivamente? Siamo interessati solo agli esseri umani e non agli animali? Ci sono ancora delle divisioni dentro di noi? Abbiamo ancora un pensiero che tende a contrapporre, o stiamo riuscendo a trovare un’unità dentro di noi?
E non c’è luogo migliore per verificare la nostra unità interiore se non la relazione con l’altro. Quando siamo in rapporto con un’altra persona, sia che si tratti di qualcuno che conosciamo da tre minuti, sia che si tratti di qualcuno che conosciamo da trent’anni, qual è il nostro modo di essere? Com’è il nostro stato interiore in presenza di questa persona? Siamo innanzitutto consapevoli che ci troviamo in presenza di un altro essere umano? Sapete bene, infatti, che ci sono moltissime persone, direi la maggioranza, che, quando si trovano in relazione con qualcuno, non sono affatto consapevoli di trovarsi in presenza di un essere umano che ha una sua storia, le sue emozioni, i suoi vissuti. In questi ultimi decenni siamo stati talmente massacrati dal consumismo anche nel campo delle relazioni e dei sistemi di comunicazione, che consumiamo tutto, anche la relazione umana. 
L’altro ci è utile per poter buttare fuori qualcosa; ci è utile come fosse un cliente della nostra fabbrica di parole. Fabbrichiamo parole perché un altro le comperi: il rapporto umano si sta riducendo a questo. I giornalisti fabbricano parole perché qualcuno le legga o, peggio ancora, perché qualcuno faccia finta di leggerle. E gli scrittori di libri sono consapevoli che si rivolgono a degli esseri umani? 
Siamo consapevoli che da una nostra parola può derivare un aiuto sostanziale alla persona che ha un incontro con noi? Possiamo dire una parola che può portare del bene, così come del male: siamo consapevoli di questo? Certamente ognuno può vivere le cose in bene o in male, e se le vive in male ha dei problemi suoi; ma non barrichiamoci mai dietro a questo.

1) Corrado Pensa è socio fondatore e insegnante guida dell’A.Me.Co. di Roma. Insegnante senior di Dharma presso l’Insight Meditation Society di Barre (U.S.A.), per vari anni è stato docente di Religioni e Filosofie dell’India all’Università “La Sapienza” di Roma e psicoterapeuta junghiano

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